Una vita tra le macerie. Storia di Zarina
Testimonianza raccolta da una collega dell’ufficio NOVE a Kabul
Oggi dopo il terremoto ho accompagnato mio padre a cercare dei parenti in un piccolo villaggio rurale vicino al nostro. Lungo un sentiero polveroso, siamo arrivati a una casa di fango semicrollata. Le pareti, spaccate dal terremoto, lasciavano filtrare la luce in tagli irregolari; l’aria era pesante, piena di polvere.
Mentre mio padre è andato a parlare con suo cugino, io sono stata accolta in casa da una vicina, Zarina, una donna di circa trent’anni. Le sue bambine entravano e uscivano trasportando secchi d’acqua più grandi dei loro corpi magri, inciampando sulle pietre cadute dal soffitto. Si è asciugata le mani con il suo scialle, ha preso le mie con una stretta lunga, profondamente umana, come se non toccasse gentilezza da anni, e mi ha fatta accomodare su un tappeto impolverato. Ovunque frammenti di muro, stoviglie rotte, ricordi sparsi. Le ho chiesto come stessero dopo il terremoto. Con gli occhi lucidi, ha sussurrato:
“In nome di Dio, non stiamo bene. Il terremoto ha portato via tutto, perfino la nostra pace.”
Dopo poco ha iniziato a raccontarmi la sua storia.
“Sono cresciuta in una valle bellissima. Aiutavo mio padre nei campi, mia madre in casa. Sognavo di avere mani pulite, come le altre ragazze del villaggio, invece le mie erano piene di terra, tagli, fatica. Da sempre, la mia vita non è stata infanzia, è stata lotta. Avevo quattordici anni quando mio zio chiese a mio padre di darmi in sposa a suo figlio, mio cugino. Ma lui non stava bene: la mente gli era stata danneggiata da una scossa elettrica. Mio zio offrì un pezzo di terra e alcune pecore. Mio padre, soffocato dalla povertà, accettò in silenzio. Non fui data via come figlia, ma come proprietà.
La vita con mio marito è stata solo crudeltà. Mi colpiva con ciò che aveva sotto mano, pietre, bastoni, stoviglie. Non c’era riparo, né rispetto.
Quando nacque la mia prima figlia, venni umiliata di nuovo. ‘Le figlie sono solo dolore’, dicevano. Ora ho quattro figlie e un figlio. Mio marito, malato e violento, non può provvedere a noi. Viviamo solo grazie alla carità dei vicini.