21Nov

Donne costruttrici di pace. Il progetto Donne, Pace e Democrazia.

Estratto dell’Intervento di Arianna Briganti, vicepresidente di NOVE, alla conferenza stampa del progetto Women, Peace and Democracy.
L’assenza delle donne dai processi di pace non è solo un problema di giustizia o di “rappresentanza”: è un problema di qualità e di tenuta della pace stessa. Lo vediamo da anni di ricerca e di pratica: è vero che i conflitti colpiscono in modo sproporzionato le donne – in termini di violenza, di accesso ai servizi, di perdita di mezzi di sussistenza. Inoltre, quando le donne non sono presenti ai tavoli negoziali, questi elementi semplicemente scompaiono dall’agenda. Gli accordi di pace diventano documenti molto sofisticati sul cessate il fuoco, sulle forze armate, sui confini, ma restano ciechi rispetto alla violenza di genere, all’economia della cura, alla vita quotidiana di chi deve “reggere” il dopoguerra.

Sappiamo che gli accordi hanno una probabilità maggiore di fallire quando le donne non sono incluse nel negoziato, eppure la nostra esclusione è quasi sistematica. A mio avviso, i rischi principali sono almeno tre.
Primo: si perde legittimità. Se metà della popolazione non è rappresentata nei processi decisionali, la pace viene percepita come “degli altri”, spesso degli stessi gruppi di potere che hanno portato al conflitto.
Secondo: si perde contenuto. Temi come la giustizia per le sopravvissute alla violenza (sessuale, psicologica, fisica), l’accesso alla terra, alla scuola, alla salute vengono rimandati a un indefinito “dopo” che spesso non arriva mai.
Terzo: si perde un’occasione storica di trasformazione. Sappiamo che in guerra le donne entrano in nuovi ruoli economici e sociali – lo abbiamo visto in molti contesti, tra cui in Europa e negli USA durante la seconda guerra mondiale. Quando noi donne non siamo presenti ai tavoli al momento della pace, il vecchio ordine patriarcale si ricompone.
La Women, Peace and Security Agenda ha fatto una rivoluzione sul piano normativo, ma non del tutto su quello delle pratiche. La risoluzione 1325 e quelle successive hanno cambiato per sempre il linguaggio con cui parliamo di pace: oggi nessuno può più dire, almeno formalmente, che la partecipazione delle donne sia “un tema marginale”. Esistono piani d’azione nazionali, esistono indicatori come il WPS Index, abbiamo dati solidi sull’impatto di genere dei conflitti e sulla correlazione tra inclusione delle donne e qualità della pace. Ma se facciamo un reality check, l’immagine è molto meno rassicurante. Ad esempio, ancora oggi, nel dibattito annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, le leader di alto livello che prendono la parola sono meno di una decina; al ritmo attuale, in base al Global Gender Gap Report 2025 del World Economic Forum, serviranno ancora 123 anni per raggiungere la parità di genere.
Allo stesso tempo, vediamo Paesi che proclamano politiche estere “femministe” e poi sostengono azioni militari in cui a pagare il prezzo più alto sono, ancora una volta, donne e bambini. In molte parti del mondo, il linguaggio della risoluzione 1325 viene usato in modo strumentale: un paio di donne in delegazione, qualche progetto mirato, senza mettere davvero in discussione la logica della sicurezza che troppo spesso è ancora legata alla militarizzazione.
Ci sono quindi enormi spazi di miglioramento. Ne cito solo alcuni:
Finanziamento e protezione delle donne peacebuilders locali, che spesso lavorano in condizioni di rischio altissimo con risorse minime.
Decolonizzare l’Agenda WPS, chiedendoci chi decide le priorità, chi scrive i documenti, chi riceve i fondi, e riconoscendo che molte donne nel Sud Globale vivono le nostre “politiche di sicurezza” come forme di violenza.
Integrare una prospettiva intersezionale, che includa non solo “le donne” in astratto, ma anche donne razzializzate, indigene, con disabilità, LBTQI+, giovani, spesso le più colpite e le meno ascoltate.
Coinvolgere gli uomini in modo trasformativo: senza mettere in discussione le maschilità patriarcali e le strutture di potere che danneggiano anche molti uomini e ragazzi, la WPS rischia di restare un’aggiunta laterale, non un cambiamento di paradigma.
In conclusione, la WPS Agenda è stata – ed è – un passaggio storico necessario, ma non è sufficiente. Finché le donne continueranno a essere in gran parte assenti dai luoghi in cui si decidono la guerra e la pace, e finché la retorica “femminista” potrà convivere senza imbarazzo con pratiche profondamente violente e discriminatorie, non riusciremo davvero a portare questa agenda con i piedi per terra: nei corpi, nelle vite e nelle lotte delle donne che stanno costruendo la pace sul campo, spesso nell’anonimato e nell’indifferenza.
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