LETTERE DA KABUL
La rubrica mensile di Alberto Cairo

La questione femminile in Afghanistan e la strategia dell'opportunità
5 novembre 2025
Non è possibile parlare della questione femminile in Afghanistan senza provare incredulità e dolore. Il diritto allo studio, al lavoro, al manifestare apertamente la propria identità e le proprie opinioni, al viaggiare non accompagnate, all’accedere liberamente al sistema giudiziario sono diritti così ovvi che a un occidentale è impossibile concepire la loro negazione.
Ma come vivono tali divieti le afghane e gli afghani?
È una domanda che sento porre spesso.
L’Afghanistan è un paese diviso da tanti fattori: etnie, geografia, livello economico e
sociale, istruzione, accesso all’informazione, tradizioni (e il legame più o meno forte ad esse), religiosità, per citarne alcuni. Oggi il Paese ha circa 44 milioni di abitanti, di cui 11 milioni vivono nelle città. Visto dall’alto, appare come un’enorme e fitta ragnatela di catene montuose e valli di varie dimensioni.
Guardando con attenzione, trovi una miriade di villaggi in posti remotissimi, distanti tra loro e collegati solo da sentieri. Là vive una gran parte della popolazione, senza elettricità e mezzi di comunicazione, senza acqua potabile e servizi medici, spendendo – come cent’anni fa – ogni energia per soddisfare i bisogni primari. Solo l’etnia hazara e, in misura minore, quella tajika sono impegnate a creare scuole per maschi e femmine anche nei villaggi più sperduti. In quelle a prevalenza pashtun, la necessità di istruzione scolastica è meno sentita e solo per i maschi. Più i villaggi sono piccoli e remoti, più ogni aspetto della vita degli abitanti è regolato da tradizioni che prevalgono sulle leggi dello stato e talora sulla religione. Tradizioni che impongono agli uomini di provvedere al sostentamento della famiglia e di rappresentarla, alle donne di occuparsi della casa e dei figli, senza contatti esterni. Non obbedire alle regole causa disonore alla famiglia, colpa grave.
Così, molte donne trascorrono l’intera esistenza senza uscire dal villaggio, conoscendo del mondo solo quanto viene riferito loro dal padre o dal marito.
Lavorando da anni a un programma di riabilitazione fisica, ho occasione di incontrare molte madri di bambini con disabilità provenienti da remoti distretti rurali. Incapaci di rispondere a domande semplicissime, mai libere di decidere senza consultare il parentemaschio che le accompagna, trattare con loro è ogni volta difficile. Per queste donne, i divieti introdotti dai talebani non sono rilevanti, perché già di fatto imposti dalle tradizioni, in vigore da sempre. Lo stesso vale per i loro uomini.
Ben diversa è la situazione nelle città e in alcune regioni (come Bamyan, Kabul, Daicundi) dove i cambiamenti di regime sono spesso stati sconvolgenti. Il ventennio che va dalla caduta del primo regime dei talebani al loro ritorno ha dato un’enorme spinta all’istruzione in genere, in particolare a quella femminile. Ricordo la primavera del 2002 (le scuole cominciano il 21 marzo in quasi tutto il Paese): grazie al programma Back to School si riversarono per le strade milioni di bambine con cartelle e divise. Spuntavano ovunque, era commovente vedere la voglia di recuperare il tempo perduto.
Poi ripresero i programmi televisivi, comparvero i telefoni cellulari e quindi internet, regalando, dopo anni di isolamento, contatti e informazioni dal mondo intero in tempo reale, creando aspettative assolutamente nuove. Per le donne un cambiamento epocale. Finalmente istruite e consapevoli dei loro diritti, molte trovarono lavoro o intrapresero attività anche in settori tradizionalmente riservati ai maschi, guadagnando potere e rispetto nella famiglia e nella comunità. Non poche ottennero posizioni governative e nel sistema giudiziario.
Dal 15 agosto 2021, giorno della caduta del governo del Presidente Ashraf Ghani, lo spazio conquistato a fatica è stato progressivamente ristretto, libertà ormai considerate fondamentali soppresse senza possibilità di compromesso. Va da sé che i decreti introdotti dal regime costituiscono per le donne “cittadine” una tragedia. Eppure chiedono semplicemente di avere un ruolo visibile nella società. Particolarmente resilienti, hanno cercato e cercano strade alternative per continuare a esistere e contribuire alla vita familiare in maniera dignitosa, ma gli ostacoli sono enormi.
Tanti gli uomini che le sostengono, contrari soprattutto al divieto di istruzione e lavoro. Ma naturalmente anche nelle città le eccezioni non mancano. Si tratta delle donne da sempre costrette dai padri, dai fratelli o dai mariti a una segregazione identica a quella dei divieti talebani. Numerose, vivono una situazione simile a quella delle donne dei villaggi, sottomesse e mute.
Ma a chi convengono simili divieti? Chi ne beneficia?
Sicuramente non le donne, tra le quali le patologie depressive anche
gravi sono in continua crescita. Non le famiglie, impoverite dalla perdita del lavoro di madri e sorelle. Neppure il Paese. Le donne afghane, costituendo la metà della popolazione, rappresentano una forza lavorativa e un potenziale straordinari. Non trarne vantaggio è penalizzante. Si calcola che i divieti imposti causino un danno economico di circa un miliardo e mezzo di euro l’anno, un’enormità in un paese in difficoltà economica.
Convengono al regime?
No. I divieti sono una delle cause del non-riconoscimento del governo talebano da parte della comunità internazionale.
Allora perché imporli e mantenerli?
Il movimento talebano ha gruppi e correnti interne in lotta fra loro. Al momento la corrente vincente è quella più radicale, che ritiene occorra ripulire il Paese dalla corruzione causata dal regime filo-occidentale precedente. La segregazione dei generi è considerata indispensabile, convinzione basata su un’interpretazione coranica unica in tutto il mondo islamico. I divieti emanati servono a garantirla.
Allora che cosa occorre fare oggi per le donne afghane?