Il lavoro come resistenza. Storia di Shehzadgi.
La violenza non sempre lascia segni visibili. A volte prende la forma del silenzio, della dipendenza, dell’impossibilità di scegliere.
È la prima forma di violenza: quella economica, che imprigiona le donne quando vengono private dei mezzi per sostenersi, per studiare e per lavorare.
In Afghanistan, dove le regole sociali e politiche confinano ancora oggi le donne ai margini della società, questa violenza è tanto diffusa quanto invisibile.
Eppure, anche tra le restrizioni più dure, ci sono donne che resistono.
Tra loro c’è Shehzadgi, 35 anni, fondatrice e direttrice del Hasanat Jewelry and Afghan Clothing Center a Mehtarlam, nel cuore della provincia di Laghman, nell’Afghanistan orientale.
Il suo laboratorio artigianale è oggi un simbolo di rinascita e indipendenza: un luogo dove una ventina di donne imparano a creare gioielli e abiti tradizionali, ma soprattutto a ritrovare la propria libertà.
“Ogni donna che entra qui porta con sé una storia di dolore o di paura”, racconta Shehzadgi. “Io voglio che ne esca con una storia di coraggio. Il lavoro è la nostra forma di libertà, la nostra risposta alla violenza.”
Con il suo modello di impresa sociale, Shehzadgi è stata una delle candidate al Women Business Prize di NOVE, un riconoscimento che celebra donne imprenditrici impegnate a costruire impatto sociale e comunità resilienti. La sua candidatura nasce da un’idea semplice ma rivoluzionaria: inserire la formazione femminile in un contesto in cui l’educazione è negata.
Anche prima del ritorno dei talebani era difficile per una donna lavorare, soprattutto nei villaggi più conservatori. Ma io volevo cambiare le regole, così ho creato uno spazio dove imparare un mestiere, guadagnare qualcosa e credere di nuovo in sé stesse.
Nel laboratorio, le donne realizzano orecchini, collane, abiti ricamati. Ogni oggetto è un frammento di resistenza, un messaggio di identità. “Ogni creazione è un modo per dire al mondo che siamo ancora qui. Che, nonostante tutto, continuiamo a creare bellezza. Insegniamo un mestiere, ma anche a credere nel proprio valore. È una rivoluzione silenziosa, ma reale” ci racconta sempre Shehzadgi.
Molte delle sue allieve, oggi, hanno aperto piccoli laboratori o vendono i propri prodotti nei mercati locali, rompendo il ciclo della dipendenza economica.
Quando una donna guadagna i propri soldi, nessuno può più zittirla.
Questa è la mia forma di resistenza.
Non con le armi, ma con il lavoro.
Ogni mattina, Shehzadgi apre le porte del suo centro, prepara i materiali, accoglie le sue allieve e si assicura che nessuna resti indietro. “Non voglio essere chiamata eroina”, dice “Voglio solo che ogni donna possa avere le mani libere. Perché finché lavoriamo, finché impariamo, nessuno potrà toglierci la nostra dignità”.
La sua è una forma di resistenza pacifica contro la più insidiosa delle violenze: quella economica. Con ago, filo e determinazione, Shehzadgi dimostra che anche nei luoghi dove tutto sembra perduto, le donne possono ricominciare e ricucire, con le proprie mani, la speranza di un futuro diverso.