La forza dello sport
I nostri primi 15 anni
Lo sport per persone con disabilità è approdato a Kabul quindici anni fa con il calcetto, ma a farlo decollare è stato il basket in carrozzina. Ricordo gli inizi, mi pare un’altra epoca, considerando quanto l’Afghanistan è cambiato e quanto sono cambiato io.
E’ il 2010, Kabul. Lavoro con la Croce Rossa, per fornire agli afghani riabilitazione fisica e reinserimento sociale, attraverso protesi, fisioterapia, scuola, corsi professionali, micro-prestiti e impiego. Da qualche tempo i più giovani chiedono anche attività per il tempo libero, sport in primo luogo. “Abbiamo poche opportunità di svago,” dicono. Sono stufi di guardare gli altri giocare. Esito. In un posto come l’Afghanistan dove mancano cose essenziali, mi domando se abbia senso spendere tempo ed energie nello sport. Tuttavia, per non deluderli, organizziamo qualche partita di calcio. Un’impresa facile, bastano uno spiazzo, due porte e un pallone. Ma a praticare è solo chi può almeno correre, lasciando fuori tanti. Cogliendomi di sorpresa, un gruppo propone il basket in carrozzina. Prometto di pensarci su. Mi documento: per il basket occorrono tre cose: (1) apposite carrozzine sportive da importare, almeno un centinaio. Al costo di almeno tremila euro l’una, il conto è alto. (2) Campi a fondo liscio per permettere le piroette delle carrozzine senza attrito, altri costi. (3) Un allenatore disposto a venire in Afghanistan per insegnare le tecniche di gioco, le regole e per formare gli arbitri. Dove trovarlo?

“Mi spiace,” devo rispondere, “non si può. Servono troppi soldi, non so dove trovarli.” Ma, un’appresso all’altra, si verificano delle coincidenze: un’organizzazione umanitaria inglese produce carrozzine sportive all’incredibile prezzo di più di 350 dollari l’una; arriva una donazione piccola ma sufficiente a riparare alcuni campi di gioco; Jess, un allenatore americano giocatore di basket – lui stesso in carrozzina – si offre volontario. Comincia così. Anche le ragazze chiedono di giocare. Il mio unico dubbio è che non siano abbastanza per formare una squadra. Invece nella sola Kabul più di cento si iscrivono, malgrado molte famiglie si mostrino sospettose verso lo sport femminile. In Afghanistan, a imporre restrizioni alle donne sono prima di tutto tradizioni, usanze e pregiudizi. Sotto la direzione di Jess, imparati i rudimenti del gioco e le regole, maschi e femmine si lanciano in lunghissimi allenamenti, seguiti da tornei locali. Mi colpiscono le inaspettate abilità atletiche di chi presenta disabilità gravi, la determinazione e l’impegno di tutti: ogni incontro, ogni palla, ogni punto paiono di importanza capitale, questione di vita e di morte. E insistono perché vengano selezionate le squadre nazionali. “Per cosa?” chiedo, “non abbiamo competizioni internazionali in vista.” Invece avviene un prodigio.


Nel 2014 Briantea 84, società sportiva brianzola attivissima nello sport per persone disabili, festeggia i suoi primi trent’anni. Ci invita in Italia per una serie di partite amichevoli. Come dire di no a un simile regalo? (NOVE comincia il suo impegno nello sport allora, occupandosi di tornei e della formazione di arbitri e classificatori, acquistando carrozzine da competizione, rimodernando vecchie palestre e costruendone.) Ahimé, scopro che organizzare il viaggio non è affatto semplice. Otteniamo in fretta i visti per l’Italia grazie alla nostra ambasciata, ma la compagnia aerea prima è restia a imbarcare le carrozzine (occupano troppo spazio nella stiva), poi chiede certificati medici che garantiscano la salute dei giocatori, che non siano infettivi né necessitino di ossigeno e assistenza medica in volo. Spieghiamo loro che sono atleti, hanno fiato da vendere e sono indipendenti, semmai il reale ostacolo è la non accessibilità dell’aeroporto e dell’aereo. Il tira e molla va avanti per un po’, ma alla fine si parte. Imprigionati dalla disabilità per anni, per molti giocatori è la prima uscita da Kabul, un avvenimento eccezionale, come andare sulla luna. Si guardano intorno incerti, smarriti, sempre in gruppo. In Italia giochiamo sei partite, ne vinciamo una, ma basta per far volare l’entusiasmo alle stelle. Alla vigilia dell’ultima, quella proprio contro la Briantea 84, l’inaspettato avviene: durante la notte quattro giocatori spariscono. Angosciati, li cerchiamo inutilmente: sono giovanissimi, in quali guai si saranno cacciati? Per fortuna arriva presto la notizia che sono in Germania, parenti e amici li aspettavano. Avrei dovuto mettere in conto l’eventualità di una defezione. Giocatori di altre squadre afghane hanno fatto lo stesso: mi illudevo che i nostri fossero diversi. Sciocco.
Raggiungere l’occidente è il sogno di mezzo Afghanistan, i quattro hanno semplicemente colto l’occasione. Il ritorno a Kabul è triste, non manca chi ci accusa di complicità con i quattro. È deciso, mai più viaggi all’estero. Invece riceviamo dal Giappone l’invito per i giochi paralimpici asiatici. “È un torneo vero, non una serie di amichevoli”, ricordo ai ragazzi. “Affronteremo Cina, Australia, Corea, Giappone. Ci stracceranno.” “In Italia abbiamo vinto,” rispondono. “Sì, una partita, la meno importante,” ribatto, “perché non aspettate di migliorare ancora un po’?” Macché.
Contattano la Federazione Internazionale di basket in carrozzina, accettano l’invito. Si allenano come non mai. Li osservo in aeroporto: niente timidezza, discutono con i funzionari-burocrati, pongono domande, insistono, si fanno valere. Che differenza dal volo precedente. Giochiamo otto partite. Tutte perse. Contro il Giappone addirittura 92 a 10. Uscendo dal campo non oso guardarli in faccia. Invece sorridono. “Stiamo imparando,” dichiarano, “vedrai al prossimo torneo, ora sappiamo cosa va fatto.” Non rispondo. Devo ammettere però che, tornati a Kabul, si mostrano di parola. Gli allenamenti diventano ancora più intensi e strutturati, apprendono nuove tecniche e strategie.
Nel 2017 è la volta delle ragazze. Debuttano vincendo un torneo in Indonesia, sbaragliando l’India e l’Iran. Al ritorno, all’aeroporto sono ricevute dalle autorità. Invitate al palazzo presidenziale e intervistate da svariate TV, diventano delle celebrità, anche loro disinvolte, sicure. Ormai, quando si gioca un torneo nazionale, giornalisti e reporter intervengono a filmare. Ogni filmato aiuta a cambiare la percezione della disabilità nel Paese. Sulla scia del successo, nuove squadre si formano in svariate province (sono 14 oggi). Ancor più importante, molti giocatori decidono di riprendere gli studi o cominciare corsi professionali. Non pochi trovano lavoro o cominciano attività commerciali. Sembrano persone nuove. Quando viaggiano, salgono e scendono dagli aerei come se ci vivessero stabilmente, sicuri di sé: che trasformazione. Gli anni passano, partecipiamo ad altri tornei internazionali. I maschi perdono ancora contro le grosse squadre, ma vincono contro quelle medie. Dall’essere fanalini di coda si passa a metà classifica. “Hanno paura di noi! Ci temono!” dicono con orgoglio. Io, ad ogni partita, provo tanta tensione da giurare sarà l’ultima cui assisto, ma ogni volta ritorno.

Arriva il 15 agosto 2021. I talebani tornano al potere. La musica cambia per tutti per le donne in particolare. I maschi possono continuare a giocare, ma lo sport femminile è dannoso e immorale. Per le ragazze è finita. Invece no: un gruppo si presenta e chiede di riprendere. “È vietato,” spiego, “rischioso.”
Anche alcune madri si fanno avanti. “Senza basket le nostre figlie sono tristi, nervose. Giocando fanno squadra, si sostengono. Accettiamo il rischio”, concludono. Cosa faccio? Ribattezziamo “fisioterapia” gli allenamenti sperando che confonda un po’, in fondo fisioterapia lo è veramente. Avvengono a porte chiuse. Nei campi all’aperto le ragazze sarebbero viste. A Kabul due giorni a settimana la palestra è tutta per loro. Essendo vicino alla strada, raccomando di non urlare. Inutile, le si sente fin dall’altra parte della città.
Finora tuttavia è andata bene…
L’ho detto, ero riluttante a introdurre lo sport per persone disabili in Afghanistan. Sbagliavo. Non c’è voluto molto tempo a capire quanto sia importante. È la perfetta combinazione di riabilitazione fisica e inclusione sociale. E diverte. Il gioco è un diritto universale, nessuno ne può essere privato perché nato in un paese povero. Lo sport trasforma la persona, la rende sicura di sé, le infonde autostima. Rido quando in pieno inverno vedo i giocatori indossare magliette leggere e attillate per mostrare i muscoli delle braccia e i pettorali. Negano di avere freddo malgrado la pelle d’oca, finalmente orgogliosi di esibirsi. Le gambe non sono perfette, sì, e allora? Sono grato a tutti i giocatori che con la loro determinazione hanno cambiato pure me. Persone svantaggiate che hanno osato ribellarsi al proprio status sociale e al ruolo che la società dava loro, di starsene quieti, accontentarsi. Proporre cambiamenti e novità in posti come l’Afghanistan – così codificato da tradizioni e costumi – richiede una grossa dose di coraggio, direi eroismo.
Quali sono i piani futuri di NOVE per lo sport per persone disabili? Certamente continuare a organizzare tornei e allenamenti, acquistare carrozzine da competizione, sensibilizzare l’opinione pubblica. Per aiutare le ragazze non c’è che una via: costruire palestre e palazzetti dove possano giocare indisturbate. Il modello c’è, quello costruito a Herat nel 2018. Basta copiarlo. Trovare i fondi oggi non è facile, ma bisogna provare.
Lo sport è una giusta causa, tentare vale decisamente la pena.
La Forza dello Sport è un progetto di NOVE Caring Humans, diretto da Alberto Cairo.
Lo sport è fondamentale per le persone con disabilità perché permette loro di sentirsi valorizzate e di integrarsi attivamente nella società.
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