Afghanistan. Madina, da profuga a mediatrice: «L’istruzione ci libererà»

Le giornaliste di Avvenire danno voce alle donne afghane per non lasciarle sole e non dimenticarle. Madina Hassani, intervistata da Roberta D’Angelo, racconta della sua vita a Kabul e come sia cambiata ora in Italia.

Aveva sei anni quando nel 2001 le truppe della Nato e degli Stati Uniti entrarono nel suo Paese e i taleban batterono in ritirata. Sei anni, ma già sua mamma la faceva studiare, clandestinamente, nascondendo i libri nel Corano. Madina Hassani entra nell’appartamento romano della mediatrice culturale della onlus Nove Roma che continua a sostenere progetti per la popolazione afflitta dal ritorno dei taleban e ci racconta la sua storia. Il suo sorriso caldo rivela forza, tenacia, generosità, qualità per le quali anche lei oggi è mediatrice nella stessa associazione. I colori della sua sciarpa, che all’occorrenza può coprire il capo o riparare dal freddo, rivelano la gioia e la voglia di vivere della ragazza di 27 anni, hazara (minoranza violentemente perseguitata in Afghanistan), fuggita da Kabul «al terzo tentativo», sei giorni dopo la ripresa del potere da parte degli “studenti coranici”. Della sua infanzia, quando ancora c’era il regime, ha sentito per lo più i racconti della mamma. Madina ricorda la scuola a Kabul, poi l’università, da ragazza libera, con la voglia di imparare e di mettere a frutto le sue conoscenze, la sua vita da adolescente, tanti amici, compagni di studio, le uscite al bar, i sogni e i progetti. La laurea in Scienze sociali e il lavoro, come insegnante di inglese, prima in una scuola, poi per Nove Onlus (l’associazione non profit si occupa di cooperazione allo sviluppo, con diversi progetti a sostegno di donne, bambini e disabili) come coordinatrice del centro femminile WiBH.

Nella sua città, finiti gli studi, insegna inglese, aiuta le donne a prendere la patente e a inserirsi nel programma “Pink Shuttle” di Nove, un servizio di trasporto tutto al femminile: donne che trasportano donne, autiste selezionate (con l’autorizzazione delle rispettive famiglie) per superare uno dei maggiori ostacoli delle afghane, che non possono condividere mezzi di trasporto con gli uomini, ma neanche andare in bicicletta. E dunque un aiuto all’emancipazione femminile. Una vera e propria impresa, che subisce uno stop con il Covid e viene definitivamente sospesa dal ritorno dei taleban. Madina sa di essere fortunata, perché vive in città. Nei paesi per le sue coetanee è tutto molto più difficile. E anche a Kabul c’è molta discriminazione per le donne, ma lei sa lottare per affermare i diritti suoi e delle donne. Dei taleban ha sentito i racconti degli anziani di casa, ma anche dei suoi genitori: per lei è un mondo lontano. Così lontano che quando nel 2021 si cominciano a vedere al confine, Madina e i suoi amici stentano a credere che stia davvero per succedere. Poi tutto precipita in pochi giorni. Pochi indimenticabili giorni che restano stampati nella memoria. «I taleban hanno preparato il rientro, c’era un disegno dietro, che capiamo solo oggi» racconta mentre lo sguardo si fa cupo.

«Il 15 agosto si scatena il caos, tutti noi giovani capiamo che dobbiamo fuggire, per gli anziani è diverso, per chi ha bambini piccoli è difficilissimo». Madina non si lascia sopraffare, prende parte nell’organizzazione dell’evacuazione, guarda l’elenco dei nuclei da portare in salvo e li riunisce in un gruppo WhatsApp, facilitandone la riuscita. Parte l’operazione “Fazzoletto rosso” di Nove, in collaborazione con il governo italiano. Passano sei interminabili giorni prima che lei e i suoi fratelli (solo uno resta con i genitori a Kabul) riescano a prendere il volo per l’Italia. Giorni in cui nell’aeroporto succede di tutto. Scene da brivido, rimaste impresse negli occhi e nell’anima. Madina è nel gruppo inviato a Bari. Altri vengono dirottati in altre zone del nostro Paese. Per tutti, anche per lei che ha «amiche e colleghe con cui ho parlato al telefono per anni» è comunque uno choc. Non a caso il programma di inserimento, oltre all’accoglienza di Nove (con il sostegno del Fondo di beneficenza Intesa San Paolo Fondazione e Kpmg) prevede anche un supporto emotivo per le «sindromi postraumatiche, specie dei bambini». Sorride Madina e racconta del suo approccio con il cibo italiano: «Tanta, tantissima pasta» e poi la sua prima mozzarella: «Noi abbiamo tanti formaggi, ma non capivo cosa fosse quel latte che usciva». Poi le pratiche burocratiche, la lingua inglese che in Italia, con sua grande sorpresa, non tutti capiscono.

Ma il nostro Paese, dice, non pecca di accoglienza, e proprio per questo la Onlus sa bene che vuol dire essere catapultati in un nuovo mondo. Lei è forte, si ambienta subito e diventa un sostegno per le sue connazionali. Con una borsa di studio inizia a studiare Scienze politiche a RomaTre. Con i suoi fratelli (uno oggi in partenza per il Canada) aiutano economicamente i genitori rimasti in Afghanistan. Lì le donne, «come era prevedibile» sono scomparse, rinchiuse in casa e private di tutti i diritti, dal lavoro allo studio. «Senza un uomo in famiglia, non possono uscire neppure per comprare da mangiare e d’altronde non hanno neppure modo di guadagnare soldi per fare la spesa». La scuola, l’istruzione, lo studio: è quella la chiave di volta, Madina ne è certa. È la cultura che può abbattere il muro che di nuovo, dal 15 agosto del 2021, nasconde le donne afghane dietro i muri delle loro case, dietro il velo dei loro burqa, dietro l’indifferenza di una parte di quel mondo che tanto ha lavorato per aiutarle nell’emancipazione e che ora, con una nuova guerra in corso, con le tante ancora in atto, la nuova crisi economica dell’occidente e l’emergenza climatica, sembra voltare lo sguardo. Lei, qui in Italia, sogna «una vita normale».

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